Un altro racconto era proprio quello che ci voleva? Direi di no, ma scriverli per lasciarli invecchiare dimenticati in qualche chiave usb non mi sembra una gran cosa, così...
El Jefe.
Ora.
Sia chiaro, non è una scienza esatta, ma puoi capire la
personalità di qualcuno dal calibro che usa per spedirti all’altro mondo. Ad
esempio, sono dalla parte meno divertente di una Colt .44, un revolver da vero
pistolero. Capisco che chi la stringe è un tipo sulle righe, uno spaccone.
Otterrebbe un buon risultato anche con una .22, ma no che non è lo stesso per uno
così. Come minimo, vuole uno spettacolo ad ogni proiettile. Il sangue deve
spruzzare ad almeno un metro e più sarà grande il foro di uscita, più
soddisferà la sua vanità.
Uno così non va per le sottili. Quando spara sembra dire: ehi, tu mi hai sfidato e io ti distruggo.
Che, visto o non visto, è la frase che sta meglio in bocca al mangiafagioli
che ho davanti.
Tranquilli, non è un messicano vero, magari di quelli pericolosi
del cartello. No, è solo un bulletto palestrato che infila tre parole spagnole
ogni mezza di italiano.
Il ragazzo però non si è dedicato solo al crimine, dopo il primo
passaggio in galera ha capito che doveva essere qualcosa di più. Allora si è
messo d’impegno a pompare i muscoli, inchiostrarsi la carne e leggere la vita e
le opere dei grandi criminali.
Tanto per infilare qualche concetto in quella testa vuota.
E' così che ha creato “El Jefe”, il Boss.
Come sono finito a fare da bersaglio alla sua pistola? Se questa fosse
una favola, inizierebbe con un C’era una
volta…
Primo giorno.
Era una notte buia e tempestosa quella
in cui entrai al Mescaleros, un pub in stile messicano incastrato tra un
discount e un’autofficina meccanica. Un vecchio capannone riconvertito ad
abbeveratoio, farcito di polistirolo per assomigliare al Titty Twister e con due manichini sulla porta sputati ai fratelli
Gecko.
Quella
topaia era quanto bastava per far credere a El Jefe di vivere dentro a Dal Tramonto all’Alba. Il problema di un
gangasta come Vincenzo Masciulli era la mancanza di fantasia. Senza una
tradizione, aveva preso la meno peggio, ci aveva aggiunto qualcosa di suo e se
l’era appiccicata addosso, come una seconda pelle.
Quel
qualcosa di personale erano un tavolaccio con un’estremità in radica lucida
come neanche l’asfalto bagnato nei film noir e il trono dorato su cui si sedeva
al centro del locale.
In anticipo
sulla solita marea degli habitué, mi ritrovai a pascolare nel deserto.
Scelsi di
accomodarmi su un trespolo nel lato più buio del bancone.
“Con o
senza?” A parlare era un barista che non assomigliava a Danny Trejo, era più un tipo alla Alvaro Vitali. Secco e basso come un bambino, pochi capelli neri
sul cranio e un surplus di pelle.
“Con o
senza, cosa?”
Prima di rispondermi, alzò gli occhi al
cielo. Se pregava il buon Gesù di farlo crescere ancora un po’, come minimo era
in ritardo di vent’anni. “La birra, la vuoi con o senza tequila?” Mi fece il
favore di tradurre.
“Fammi un giro con”, dissi e tirai fuori
dalla tasca una banconota da dieci.
Prese una birra, la stappò e la consacrò
all’unico discepolo presente. Con la faccia delle grandi occasioni, ne gettò un
po’ troppa nel lavello, sostituì l’ammanco con due dita del liquore, una goccia
di tabasco e affogò la fetta di limone.
“Il primo giro è pronto.” Mi piazzò la
bottiglia davanti e fece sparire il denaro.
Buttai giù un sorso.
“Buona, – mentii – com’è che non ci hai
messo pure il sale?”
Ci pensò su un attimo, ma non troppo. Sparì
in cucina. Riapparve con un barattolo a
forma di gatto. Mancava metà della calotta cranica del felino e sulla fronte c’era
scritto salt.
Ne preparò una per sé. Seppellì la fettina
di limone nel sale prima di farla annegare nella sua ricetta segreta. Ne bevve
metà in un sorso. Mostrò una faccia soddisfatta e trattenne un rutto. “Mi sa
che hai avuto una buona idea.” Agitò quello che rimaneva come fosse un Martini,
poi scolò il resto.
Alzai il mio beverone e lo inclinai verso
di lui, alla sua salute.
“Ok,
questa te la sei guadagnata - mi restituì il biglietto da dieci - è la prima
volta che passi di qua, vero?”
Annuii.
“Dimmi, sei qui per divertirti o per
affari?”
“Quello che capita, ma chi è che si siede
lì?” feci un cenno verso il trono.
“Ah, quello è il posto di El Jefe, il
padrone della baracca, l’uomo giusto se vuoi fare affari.”
Alla fine, il barista non era così antipatico. Mi disse che Vincenzo il
locale se l’era comprato, ma dimenticò di aggiungere che i soldi con cui lo
pagò erano dello spaccio e di qualche altro giro criminale. Ancora prima di
possederlo sapeva già come lo voleva arredare, ma non aveva ancora trovato un
nome adatto. Com’è come non è, il piccolo imprenditore aveva scoperto
l’esistenza della tribù dei Mescaleros. Niente di più che il nome messicano
degli Apache dediti all’uso di qualche allucinogeno.
Certo, una marea di chiacchiere inutili, ma che faceva emergere qualcosa
in più. Pur avendo messo insieme una banda criminale, non era troppo attento. Se
aveva un problema, non pensava a una soluzione, si limitava a cercarla.
Improvvisava e credeva di essere il dritto a cui tutte le ciambelle
riuscivano sempre con il buco.
Tra una birra e l’altra, avevo abbreviato la sorveglianza di un paio di
giorni. Decisi di rimanere giusto il tempo per vedere come si muoveva.
Le informazioni del contatto, i racconti del barman e le mie prime
impressioni coincidevano.
Sapevo con chi avevo a che fare: uno spaccone un po’ più furbo della
media.
Il bersaglio arrivò. Era circondato da gringo finto messicani; erano in
cinque vestiti nella maniera adatta per fare coreografia, ma solo tre erano
armati.
Uno indossava pantaloni militari, il tessuto era una monotonia desertica.
Aveva diversi posti dove riporre la pistola, ma la teneva nella tasca
dell’inguine.
Era abituato a portarla lì.
Aveva più di chili del necessario, abbastanza da tendergli il giro vita,
quindi conveniva liquidarlo quando era seduto, senza lasciargli il tempo di alzarsi.
Gli altri due portavano il ferro nella cinta, dietro alla schiena.
Uno aveva una cicatrice sulla fronte, l’altro era mancino e il calcio stava
a sinistra.
Presi nota, non volevo trovarmi a fissare la mano sbagliata durante una
sparatoria.
Non erano delle guardie del corpo efficienti. Per quello che ne potevo
sapere, avevano già affrontato qualche scontro a fuoco. Potevano crearmi
qualche difficoltà.
El Jefe era tutto di un’altra pasta. Stivali di coccodrillo, blue jeans
sgualciti, una fibbia a patacca lucida e dorata. Una canottiera bianca,
attillata sui muscoli, in parte coperta da una camicia rosso fuoco. Indossava
una fondina ascellare e portava una Colt Anaconda a canna media.
Non era esattamente l’arma adatta a un apache tossico.
Forse avevo fatto confusione o si sentiva un po’ troppo Billy the Kid.
Per via del rinculo doveva usare due mani, oppure prepararsi a un polso
acciaccato.
La pelle era del colorito giusto per sembrare quella di un latinos.
Neanche a dirlo, i pochi tatuaggi visibili sul petto erano delle scritte
messicane e sul cuore un teschio agghindato per el dia de los muertos, farcito
di crocifissi, fiori e gioielli.
Anche i capelli erano scuri e lisci al punto giusto. Aveva una faccia a
spigoli sporcata da una barbetta insipida. Restai a guardarlo mentre beveva e
parlava come il Re Sole alla sua Versailles.
Con l’arrivo degli altri clienti, mi ritrovai da solo.
Secondo
giorno.
Milano, una
città che non conoscevo. Il contatto era stato preciso. Al rientro dal
Mescaleros mi ritrovai in una reception affollata. Niente puttane o spacciatori
in vista, era un posto rispettabile.
C’era
abbastanza personale per non parlare due volte con lo stesso addetto e
l’entrata principale dava su di una via trafficata.
Come al
solito, io da una parte e i ferri del mestiere da un’altra. Non volevo che il
servizio in camera inciampasse in una .38 o che la donna delle pulizie mi
spolverasse il bagaglio, magari in cerca di un extra, e si dovesse accontentare
di un fucile di precisione silenziato.
Alle 6:00 il
telefono squillò. Risposi. Avevo tre ore prima che El Jefe desse segni di vita,
ma non per questo potevo dormire come lui.
L’acqua
fredda della doccia fece scivolare via il sonno. Scesi a fare colazione.
Nella sala
ristoro eravamo io e un’amabile pensionata. Quando mi vide vicino al dispenser
del caffè, decise di tendermi un agguato.
“Lo sa che
assomiglia a mio figlio?” Si avvicinò e attaccò il discorso nella maniera più
scontata. “Mi sa che ha anche la sua stessa età”, proseguì pensando che fossi
intenzionato a scambiare qualche parola con lei.
Visto che
dovevo sorbirmi il messicano, rispolverai il mio spagnolo. “Sencillamente no te
entiendo.” Semplicemente non ti
capisco, mi ero permesso di darle del tu, ma non credo se ne intendesse a tal
punto da darmi dello screanzato.
“Ah, allora lei è spagnolo?” Mi chiese
alzando notevolmente il volume della voce.
Chissà perché, ma la carne secca fatta
donna era convinta che parlando con un tono più alto riuscissi a comprendere il
suo idioma. Mi misi a rimirare il soffitto, vidi che anche lei prese a
occhieggiare verso l’alto. Scelsi una parola spagnola facile, qualcosa che
potesse comprendere anche lei, la mescolai con un po’ di italiano, un verbo
fuori tempo e scombussolai la sintassi.
“Señora, il
cazzo la pregherò di non disturbarmi.” Sibilai la s per ingannarla, poi ribadii il concetto con un :“grammy, suck
my dick, please.”
“Oh, non è così che si dice, qualunque
cosa lei abbia detto.” A momenti sputò la dentiera sul tavolino. Aveva smesso
di ascoltare appena sentita la parola cazzo.
“Non ripeta più quella parola con la c,
è da maleducati.” Per fortuna si scollò e mi lasciò in pace.
Ora.
“Donde estas la borsa di pelle?” Vincenzo
preme la pistola sulla mia fronte e tiene a freno il fiatone.
“Ascolta, yo no hablo espanol, cerca di
parlare italiano”, dico e riesco a sentire il suo cervello che si inceppa. Fa
più o meno questo rumore: mi prende per
il culo, com’è che mi dice in spagnolo che non parla spagnolo?
Voglio farlo uscire dal suo personaggio,
vedere quanto è duro se è solo Vincenzo.
Ignoro il dolore al polpaccio destro. Sul
pavimento c’è un po’ del mio sangue, ma è poca cosa.
Sento la scarpa incollarsi
al piede e ogni volta che mi muovo.
Sono stato fortunato, vivo anche se zoppo e agile quanto la gentile
vecchietta con cui avevo fatto colazione.
Stringo i denti.
“Hombre, sono io che comando, capito?” Ha
il fiato corto, ma sembra sulla via buona per ritornare a respirare.
“Cosa vuol dire hombre?” Insisto, arriverà
a un punto in cui dovrà premere quel cazzo di grilletto.
“Cojón - con il pollice attira il cane verso
di sé – come cazzo è che non sai nemmeno quattro parole messicane?” Inghiotte
dell’aria. Inspira con le narici.
Francamente, non so che
rispondergli. “Mentre ti facevi le seghe, io lavoravo e non avevo tempo per
fare il bullo.” Ok, questa è un po’ da duro anni ’80, vecchio stampo, ma non
sapendo che fare l’ho gettata comunque sul piatto.
Arretra di un passo, mi colpisce
con la canna. Lo lascio fare. Fa male, ma insisto, non è un professionista.
"Se
vuoi fare un bel lavoro, prima di tutto usi il calcio, non la canna. Ovviamente devi
bloccare il ponticello con il dito, sennò ti spari addosso. Vuoi la tua borsa, Vincenzo?”
“Non mi chiamare così cabrón, yo soy El Jefe.” Parte il secondo tempo del pestaggio, ma non
punta alla testa, mi assesta un calcio sulla ferita.
Secondo giorno.
Il mio posto sicuro era un appartamento
a due passi dal covo di Vincenzo, una casetta a Rozzano con tanto di porticato
e vista su una cintura di palazzi. Tra lui e me c’erano un cortile e una strada.
Dalla finestra della cucina potevo contare i fili d’erba del suo prato. Non si
trattava di fortuna, ma di organizzazione. Il contatto aveva mandato la
famiglia in vacanza per farmi avere la migliore postazione da cui spiare il
bersaglio. Indossavo sempre i guanti in lattice, non volevo lasciare le mie
impronte da qualche parte. Vincenzo non immaginava nemmeno quanto fossero pericolose
le persone che lo volevano morto. Avendo scampato due attentati, di quelli
mafia style, si era messo in testa che nessuno ci avrebbe più provato e di
essere intoccabile.
In realtà, Loro facevano di tutto per
non farsi notare. Secondo qualche politico, al nord la mafia non esisteva.
Così, anziché continuare ad attirare l’attenzione con motorini truccati e
guappi con il casco, preferivano dare all’uscita di scena un taglio più
“borghese”.
Certe cose succedono solo da Napoli in
giù, mentre un omicidio fatto in silenzio e senza troppe sbavature poteva
sembrare una normale notizia di cronaca nera.
Evidentemente, il mio operato non
avrebbe sollevato inchieste giornalistiche e polveroni mediatici. Mi ero
portato due pistole, erano abbastanza per fare un bel lavoro.
Osservavo i sei pezzi della Beretta .22.
Pulii e lubrificai il tutto. Non era nient’altro che il mio rituale
portafortuna, perché ogni cosa scorresse liscia come l’olio.
Rimontai l’arma e la piazzai con del
nastro isolante sotto il tavolo.
Passai alla .38, una Glock e anche qui
mi assicurai che fosse a posto. Indossai la fondina alla cintura con sistema di
sblocco all’estrazione.
Non volevo perdere tempo al momento del
bisogno e di solito non la impugnavo per esibirla.
Indossai una giacca leggera e scesi in
macchina. Una Volkswagen Polo verdone,
abbastanza anonima da passare inosservata.
Per non dare nell’occhio, i Jefe
soldier’s si spostavano a bordo di una Hummer gialla. Mancava solo l’insegna al
neon per attirare gli sguardi dei poliziotti più distratti, ma tant’è.
Vincenzo uscì con un uomo, quello col
ferro in tasca. Azionò l’allarme dell’abitazione con un comandino e appena
salirono a bordo, l’auto si mise in moto.
Valutando l’ipotesi di un tiro da
lontano, capii perché si spostavano con quel carro armato. Rischiavano di farsi
notare, ma copriva buona parte della visuale sul breve tragitto che percorreva
al mattino, oltre a offrire un buon riparo.
Fortunati? Forse, ma non erano proprio così stupidi come pensavo.
La mattinata la trascorsero in “ufficio”
sino alle 15 e non uscirono nemmeno per pranzare. Un appartamento al terzo piano di un palazzo su
Corso Buenos Aires. Scartai l’opzione. Uno dei suoi rimaneva nell’atrio e tra
commercialisti e avvocati circolavano troppe persone. Facile entrare, difficile
passare inosservato dopo il primo sparo.
Nel pomeriggio controllarono il giro
dello spaccio. I tre armati erano sempre con lui. I suoi spacciatori lavoravano
al centro di una piazza con diverse opzioni per la fuga o per il controllo
della zona e liquidare la concorrenza. Prima però c’erano due blocchi, le vedette
e la cavalleria. I primi erano sempre ragazzetti o simili e se ne stavano a
bordo strada a notare le cose strane, mentre i secondi erano motorizzati,
armati e pronti a intervenire in caso di bisogno.
Troppe variabili e poi il contatto non
voleva una cosa da strada.
La cena era un incubo; il ristorante
aveva più telecamere di uno studio televisivo.
Verso le otto ripeteva per lo più il
giro di controllo, ma al contrario e senza fermarsi. Il tempo risparmiato lo
impiegò passando dalle sue puttane.
Alle 23:00 arrivò al Mescaleros. Forse
lì si sentiva al sicuro. Era il posto con meno imprevisti e l’attenzione
scendeva.
El Jefe e i suoi Rancheros si
rilassavano dopo una dura giornata di lavoro.
Tornai all’appartamento, era inutile
aspettare che uscisse o che io entrassi a controllare.
L’allegra comitiva rientrò intorno alle
2:30. Vincenzo era abbastanza alticcio, riuscì a malapena a premere il
comandino dell’allarme e, soprattutto, si rinchiuse nella sua fortezza con un
solo uomo.
Quella sera toccava al mancino.
Il fuoristrada fece inversione a U e
sparì in pochi secondi.
Dopo aver chiuso la porta, nel giro di
trenta minuti si spensero tutte le luci.
La casa era il posto ideale. Dovevo
capire che tipo di allarme aveva e portarmi dietro un silenziatore.
Ora.
Accuso il colpo e sento aumentare il
dolore sulla gamba.
“Te lo ripeto, non è qui la tua
borsetta, ti pare che me la portavo appresso?”
“Dov’è?”
“Se ti dico che è al sicuro, ti basta
come risposta?”
Scuote la testa. Nonostante tutto, ci
stiamo divertendo come due vecchi amici. Abbiamo giocato a guardie e ladri.
Sino a qualche minuto fa, mi stava sparando addosso ma ormai è acqua passata.
Sollevo la gamba e per un microsecondo
provo sollievo.
“Gringo, com’è che non hai paura?”
Guarda la sua .44. “In fondo sono io quello con la pistola.” Torna a
sventolarla, tanto per farmi un po’ d’aria sotto il naso.
“Vedi, se io fossi Gian Maria Volontè
con un fucile e tu Clint Eastwood con una pistola, ti assicuro che non sarei
troppo sereno, ma al momento non ho nulla di cui preoccuparmi, davvero.”
“Tu sei tutto matto.”
Nonostante io assomigli a una gru, cerco
di minacciarlo. “Senti, vogliamo aspettare che arrivi la Polizia, oppure ci
decidiamo a chiuderla qui?” Dico, sbadigliando. Non per altro, i minuti passano
e con tutto il casino che abbiamo fatto, rischiamo di avere compagnia.
“Dammi la sacca, così mi sbrigo ad
ammazzarti.”
“Io ho un’ idea migliore.”
Terzo giorno.
Niente albergo, dovetti accontentarmi
del letto padronale. Stesi un telo di plastica e ci dormii sopra. Non fu una
cosa comoda, il materasso era stato sfondato da un eccessivo utilizzo. Chi
abitava qui, o si accoppiava con la frequenza dei conigli e a forza di dai e
dai lo aveva ucciso con diverse prodezze erotiche, oppure da anni calibrava
le spese reputando il riposo meno importante della spettacolare visione offerta
dalla collaborazione tra un lettore blu-ray 3D full hd, il 60 pollici smart tv
hyperreal engine e un potentissimo dolby surround installato in tutto il
salotto.
Seppellite in un cassetto trovai le foto
di famiglia. No, non sembrava gente che si accoppiava di frequente. Non avevano
figli e la stanza in più era una sorta di sgabuzzino in cui uno dei due, forse
il marito, aveva stipato tutti i piccoli furtarelli dal posto di lavoro. Si
trattava per lo più di materiali idraulici, teloni e attrezzi, tutta roba buona
per i lavori di manutenzione domestica che riusciva a inventarsi. La moglie
doveva essere una maniaca dell’ordine e della pulizia. Qualunque oggetto
tridimensionale presente tra le mura possedeva lo stesso aroma ai fiori
d’arancio dello sgrassatore, di cui trovai un’abbondante scorta schierata in
tre file di cinque pezzi ciascuna sotto il lavello del bagno. Nessuna traccia
di polvere nemmeno sopra la scarpiera all’ingresso. I vestiti, tutta roba da
quattro soldi dal taglio e dai colori troppo giovanili per due over cinquanta.
Decisi di non fare nemmeno il caffè; di
sicuro la guardiana del focolare domestico avrebbe notato qualche traccia di
sporco molesta.
Alle 8:57 mi affacciai alla finestra per
verificare che uscissero come al solito. Sei minuti dopo non c’era più nessuno.
Scesi in strada e controllai il sistema
di allarme. Diedi una rapida occhiata e vidi che avevano scelto il Top Class
degli antifurti, era praticamente impossibile entrare senza far scattare la
sirena, ma era possibile disturbare il segnale delle onde radio e accedere alle
frequenze esatte per disattivarlo, come se avessi un comandino.
Non sarei mai diventato un killer se
fosse bastato un allarme a fermarmi.
Tornai all’albergo per mettere in
disordine la camera e dare l’impressione di averci dormito dentro, poi passai
il resto del tempo libero a spasso per il centro della città. Li riagganciai
alle tre del pomeriggio, quando El Jefe e i suoi uscirono puntuali dal parcheggio
sotterraneo del palazzo per compiere gli stessi spostamenti.
Ora.
“Vete a la chingada.” No, la mia idea
non gli interessa, crede che sia solo un’altra perdita di tempo. “Muévete
rápido.” Attaccò a incitarmi come se fossi un cavallo. Vuole che mi sposti
lontano dalla sua portata.
Zoppico sino a quando non è soddisfatto.
Davvero, è convinto che la borsa sia qui
in giro, da qualche parte.
Sorrido all’idea di lasciarlo mettere a
soqquadro, immaginando la reazione isterica della maniaca dell’ordine e della
pulizia quando dovrà nettare il mio sangue, riordinare il casino e giustificare
la presenza di un cadavere.
Siccome non posso godermi la faccia
della donna, è ora di smetterla.
“Ma allora tu parli messicano?”
“Sì.”
Quarto giorno.
Decisi di entrare in azione, ma avrei
comunque verificato gli spostamenti. Nessun pedinamento stretto, solo
un’osservazione da lontano. Dopo la partenza, avrei fatto un sopralluogo
nell’abitazione, per sapere come muovermi una volta all’interno.
Nella notte avrei fatto il lavoro.
Ma ci fu un grosso cambiamento che mi
costrinse a modificare i piani.
Alle 9:00 non arrivò la Hummer, ma una
Croma blu, da politico. Non era la prima volta che vedevo andare a braccetto
criminali e amministratori pubblici, ma non si trattava di una visita di cortesia.
I vetri oscurati non facevano capire quante persone ci fossero a bordo. Scese
un gorilla che doveva fingere di essere un autista; indossava un’anonima divisa
elegante, ma i muscoli che la farcivano non se li era fatti sterzando e
accelerando tra un semaforo e l’altro.
Chissà se aveva un porto d’armi per il
classico rigonfiamento sotto l’ascella.
Da bambino educato, suonò il citofono e
attese che qualcuno gli aprisse. Fu accolto da El Jefe in persona ma non
sembrava contento di vederlo.
Si scambiarono un paio di chiacchiere non
molto amichevoli, poi lo ignorò e puntò in direzione dell’automobile.
Temendo di passare inosservato e di
dover fare un po’ di anticamera prima che qualcuno si accorgesse di lui, attirò
l’attenzione battendo il palmo sul tettuccio. Dalla porta sbucò la guardia del
corpo del giorno che teneva sotto tiro con la pistola il finto autista.
Vincenzo alzò la voce, riuscii a capire
soltanto due parole: “matar” e “stampa.”
Abbastanza per intendere che non esponeva la
sua soddisfazione nell’impegno di attuare il programma politico dell’eletto,
ma stava dando un giro di vite a un ricatto bello e buono.
El chico azzerò le giustificazioni
impugnando il ferro. “Adelante”, disse per costringerlo a obbedire.
Alla fine, all’autista fu concesso di
rimettersi al posto di guida e il carrozzone scomparve in un soffio.
El Jefe si barricò in casa.
Tutte queste novità non mi entusiasmavano.
Non mancavo di flessibilità per adattarmi, solo che non si può improvvisare un
omicidio, così tanto per.
Dovevo capire cosa stava accadendo.
Passai un paio d’ore a tenere sotto
controllo la situazione. Il traffico era pressoché inesistente, un paio di macchine.
Sul marciapiedi camminavano solo residenti; tutte le persone a piedi, poco
prima di passare davanti alla villetta, si assicuravano di attraversare la
strada e restavano sull’altro lato. Nel quartiere non aleggiava la paura
generica per la criminalità, sapevano benissimo dove abitava il criminale e
facevano di tutto per evitarlo.
La macchina blu fece ritorno. Meno
coreografia rispetto al precedente incontro. L’autista scese, dal cofano
recuperò una borsa di pelle nera. Una specie di sacca da bowling con i manici
o, se preferite, qualcosa di molto simile alle portavalori che le banche
regalano ai facoltosi che fanno operazioni ai loro sportelli.
Bene, alla fine erano anche comparsi dal
nulla altri soldi.
Terminato lo scambio, Jefe e il suo uomo
si diedero da fare per chiudere tutte le persiane. Il pistolero che aveva
appresso, fece anche un salto in strada per staccare il contatore dell’Enel,
chiudere l’acqua e il manicotto del gas.
Si stavano preparando a lasciare quel
posto.
Ecco come vennero vanificati i miei
giorni di lavoro. Avrei dovuto ricominciare da capo.
Il telefono all’entrata iniziò a
squillare.
Non stava in piedi che, nel momento in
cui tutto era saltato, qualcuno componesse per errore questo numero o che
qualche parente ignaro della partenza dei congiunti facesse una chiamata
proprio ora.
Non esistevano coincidenze e in quattro
giorni l’apparecchio era rimasto muto.
Sollevai la cornetta e appoggiai
l’orecchio.
“Al bersaglio è stata consegnata una
borsa, è prioritario che venga recuperata – un attimo di pausa - intervieni subito.”
La comunicazione si interruppe.
Era il contatto. Ora non voleva solo un
assassinio, ma anche un recupero.
No, c’era qualcosa di più importante dei
soldi o della droga.
Scesi in strada e mi accomodai sul
sedile della Polo, in attesa degli sviluppi.
Non passò molto e la portaerei gialla
fece capolino nella via. El Jefe uscì, trascinando due voluminose valigie
rigide.
“È tutto pronto?” disse, al tiratore con
la pistola in tasca.
“Certo, Tijuana ci aspetta.”
“Adios Milano.”
Non partivano per scattare qualche foto
e rosolarsi su qualche spiaggia sull’oceano, stavano scappando.
Quattro tiri in mezzo a una strada
deserta potevano anche essere una buona soluzione o un compromesso accettabile.
Nel caso non sarei tornato a lavorare da
queste parti per molto tempo e del resto se ne sarebbe occupato il contatto.
Alla guida c’era quello con la ferita
sulla fronte. Il mancino e l’altro pistolero erano in casa.
“Affanculo
Jefe.” Avvitai il silenziatore e scesi con la .38.
Appena sceso, mirai all’autista.
Flop.
Non se n’era nemmeno accorto e avevo
tagliato la possibilità di una fuga veloce.
Una leggera corsa e arrivai sulla porta
di casa. Gettai un occhio all’interno. Non amavo operare in ambienti estranei
ma non avevo alternative. Un lungo corridoio costeggiava una scala e sfociava
in una sala da pranzo.
Avevo via libera.
Prima di entrare, ascoltai.
Rumore di passi al piano superiore.
Fu in quel momento che arrivò una Ford
Fiesta rossa. Un colpo di pistola partì ancora prima che l’auto potesse
parcheggiare. Riuscii a girarmi appena in tempo per vedere delle schegge di
legno schizzare via dallo stipite dell’entrata.
L’effetto sorpresa era saltato.
Senza pensare mirai verso l’automobile.
Flop.
Il primo colpo infranse il finestrino
posteriore dell’auto ancora in corsa.
L’autista frenò e fece lo sbaglio di
fermarsi.
Flop.
L’uomo sul sedile del passeggero si
accasciò e la sua pistola cadde fuori dall’abitacolo.
“Che cazzo avete da sparare?” Era El
Jefe e urlava come un maiale sgozzato.
L’uomo alla guida doveva ancora capire
cosa stava succedendo e da dove arrivasse tutto quel sangue.
Flop.
Azzerai il problema.
Gli scagnozzi di Vincenzo erano cinque,
non tre.
Avevo fatto un errore, li avevo
sottovalutati.
Erano molto più furbi di quanto fossi
riuscito a immaginare.
Poteva costarmi la vita.
Al Mescaleros erano entrati assieme,
significava che seguivano il capo con un'altra macchina.
Dov’erano durante il pedinamento e come
avevano fatto a non notarmi?
Lasciai perdere, non avevo tempo per
speculare.
Salii i gradini due alla volta. Il
mancino stava estraendo.
Flop.
Ne mancavano altri due.
El Jefe sbucò dalla prima camera a
destra. “Ma si può sapere cosa…” Non terminò la frase. Quando era sotto stress
lasciava perdere il messicano.
Appena mi vide, coprì il prezioso carico
con le braccia e tornò indietro.
Potevano fuggire dalla finestra.
Non c’era tempo.
Uno scatto e arrivai nella camera. Vincenzo
era già sul davanzale. La sua ultima guardia del corpo, quello mancino, sollevò
l’arma. Sparai senza mirare. Il colpo si schiantò a una trentina di centimetri
dalla sua testa. Gli fu fatale il colpo d’occhio per controllare se il
suo capo era ancora vivo.
Sparai un altro colpo un istante prima
di lui.
Il suo proiettile fece un buco in mezzo
ai miei piedi.
Sentii un bruciore intenso al polpaccio
destro.
Ero stato colpito.
El Jefe impugnava la pistola.
Partì il primo colpo.
Cercai di spostarmi ma la gamba cedette
e finii a terra.
Lo vidi perdere l’equilibrio. Lasciò
cadere la borsa per aggrapparsi al muro, ma non ci riuscì.
Lo sentii rotolare sulla veranda.
Sparò un altro colpo.
Speravo si fosse ammazzato da solo.
“Vengo a prenderti, hijo de puta.” Purtroppo non ero
stato abbastanza fortunato. Mi alzai appoggiandomi sul letto e cercai di capire
cosa fare. Vincenzo preso dalla foga sarebbe tornato in casa, avrebbe salito le
scale, oppure poteva aspettare che mi affacciassi alla finestra.
Quando riuscii a prendere la borsa
ero giunto a metà dell’opera, ma il peggio non era ancora passato.
Dall’inizio erano trascorsi meno di
cinque minuti. Per la prima volta avevo un attimo di respiro, ma non potevo prendermela
comoda, non senza prima aver fatto anche la seconda metà del lavoro. Restando
chinato, raggiunsi il letto. A ogni passo il dolore lanciava una fitta e mi
faceva dondolare come un cavalluccio. Presi un cuscino e lo sventolai davanti
all’imposta.
Non accadde nulla.
Aveva scelto l’azione, non si aspettava
di vedermi affacciare.
Poteva sbucare da un momento
all’altro.
Lasciai cadere il mio misero
diversivo e decisi che era giunto il momento di uscire. Appena mi sporsi lo
vidi. Quel figlio di un cane mi aspettava, era stato abbastanza pronto da non
imbottire di piombo il suo cuscino. Due colpi in rapida successione, uno doveva
essermi passato così vicino da farmi la barba.
Sino a quel momento eravamo stati
tutti e due assistiti dalla dea bendata.
Il primo che avesse fatto l’errore
più grande sarebbe morto.
Lo sentii correre al piano di sotto.
Finalmente si era deciso a muoversi. Aspettai di sentire i suoi passi per le
scale e iniziai a scendere. La borsa, la pistola e la ferita mi complicarono l’operazione.
Gettai i primi due e cercai di non spezzarmi l’osso del collo. Atterai
rotolando.
Saltare da un paio di metri non fu
il momento più bello della giornata, ma almeno mi ero tolto dai guai.
Raccolsi la borsa. Con la coda
dell’occhio notai sui balconi di fronte una decina di persone. Avevamo un
pubblico.
Cercai di individuare l’arma, ma un
altro colpo sparato da El Jefe mi convinse a lasciar perdere e a tentare di
togliermi da questa situazione.
Cambiavo traiettoria il più
possibile mentre ignoravo le stelle che vedevo ogni volta che la gamba destra
reggeva tutto il mio peso.
Un colpo partì diretto alla Fiesta.
Mi riparai. “Ehi Jefe, vieni a
prendermi.”
Lo sentii imprecare e urlare, ma
non sparare. Utilizzai l’utilitaria come riparo e valutai se raccogliere la
pistola appartenuta al morto.
Troppo rischioso.
La mastodontica Hummer mi coprì alla
perfezione. Per riuscire a centrami, doveva sporgersi troppo.
Fui sollevato quando vidi che non
mi teneva più sotto tiro.
Mi lasciai la strada e il cortile
alle spalle claudicando piuttosto velocemente. La Polo poteva tornarmi utile
per finire il lavoro.
Aprii la portiera, lanciai la borsa
sul sedile posteriore. Tentai l’azzardo e corsi verso l’entrata principale del
palazzo.
Era accostata, bastò spingerla.
Ci mancava solo che mi dovessi
mettere ad aprirla con le chiavi.
El Jefe comparve in strada. Lo
fissai mentre chiudevo la porta e gli mostrai il dito medio.
Avrebbe perso qualche minuto per
entrare, secondi preziosi che avrei utilizzato per salvarmi la pellaccia.
Mi arrampicai sulle scale. Al
pianerottolo sentii lo schianto contro il vetro dell’ingresso. Nessuno degli
inquilini aveva scelto di continuare a guardare l’inseguimento nella tromba
delle scale.
Se erano furbi, avevano sprangato
le porte e si erano incollati al telefono per chiamare la Polizia.
Dal basso gli schianti contro il
portone non cessavano.
Doveva essersi rotto di fracassarsi
la spalla contro l’alluminio e i vetri, così sparò e lo sentii urlare
nell’androne.
Era finita, potevo rilassarmi. Con
tutta calma rientrai nell’appartamento, lasciai la soglia spalancata e mi
diressi in cucina.
“Ciao, sono a casa”, dissi
mettendomi a ridere.
Ora.
Il fatto che io parli messicano lo
ha stupito. Ha aggrottato le sopracciglia quasi sino a unirle.
“So anche contare”, mi appoggio sul
tavolo per alleviare il dolore alla gamba.
“Cosa cazzo c’entra che sai anche
contare?” Urla, questa volta mi sa che ha perso la pazienza.
“Pensa a cosa ti serve un revolver
dopo che hai sparato sei proiettili.”
Preme il grilletto, io allungo una
mano e prendo la .22 attaccata sotto il tavolo.
“I ruoli si sono invertiti, ma sai
qual è la differenza?”
Cerca di spararmi un’altra volta,
magari crede che nel frattempo gli siano cresciute un paio di pallottole nel
tamburo.
“Tu non hai nulla che io voglia.”
Premo il grilletto.
Finalmente è finita.
Sento le prime sirene della Polizia.
Faccio un salto in camera. Dal
primo cassetto prendo un paio di calze, prima di uscire afferro delle scarpe da
ginnastica e chiudo la porta a chiave.
Mi rimane il tempo per scendere e sparire
a bordo della Polo.
Epilogo
È passato un giorno e a nessuno è
venuto in mente di cercarmi per quanto successo a Rozzano. La ferita non è
niente di grave, diciamo che rimarrà una bella cicatrice che servirà a
ricordarmi che nel mio lavoro non bisogna mai sbagliare nulla, neanche quando
improvvisi.
Sono in Corso Sempione, seduto
davanti alla scrivania del Maggiore Tribuni.
Questa è la nuova identità del
contatto.
Sta osservando il contenuto della
borsa.
“Da quando è diventato un
finanziere?”
“Più o meno da una settimana,
figuro trasferito da una caserma di Cagliari.” Si accomoda sulla poltrona.
“Perché, vuoi anche tu infiltrarti nelle forze dell’ordine?”
“No grazie, - sottolineo il rifiuto
con un gesto – preferisco continuare a fare quello che faccio.”
“Sono morti due carabinieri sotto
copertura.” Mi porge le foto dei due occupanti della Ford Fiesta rossa.
Mi avevano visto di sicuro. “Hanno fatto
rapporto?” chiedo, immaginando che sappia già tutto.
“Li abbiamo sostituiti e non si
parla di una Polo né di uno che ti assomiglia troppo.” Il tono della voce è
secco, non promette niente di buono.
“Perché non me li avete segnalati?”
“Non era un’informazione utile per
il compimento della tua missione.” Porge la mano e rivuole le foto.
“Cosa mi accadrà?”
“Niente, ma hai messo a rischio la
tua copertura.” Scuote la testa per manifestare tutto il suo disappunto. “Per
un po’ finirai seppellito dalle scartoffie in qualche ufficio del Ministero
degli Interni.”
“Gli affari del Jefe?”
“Grazie a te, sono i nostri affari.”
Indico la borsa. “Il registro che
c’è li dentro, non è un nostro lavoro, sembra autentico.” Valuto la reazione.
“Una volta decifrato, - proseguo- si
vede molto bene come i soldi sporchi finiscono nelle mani dei politici locali,
ci siamo in mezzo anche noi?”
“Cosa c’entrava Vincenzo Masciulli con tutto questo?”
“Niente, stava ricattando la persona sbagliata.”
“Noi cosa ci ricaviamo?”
“Noi chi?” Mi chiede stupito.
“I servizi segreti”, pronuncio il nome proibito.
Sbarra gli occhi, si guarda attorno. “Perché
dovrebbemmo interessarci a una cosa del genere?” Sorride soddisfatto. “Scoppierà
Tangentopoli.”
Cerco di ricordare se ho mai sentito qualcosa a proposito di un’operazione
con quel nome. “Siamo nel 1992, è ora che la prima repubblica finisca.” Dice,
indicandomi l’uscita.
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