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Prima che una delle tante
petizioni che circolano su facebook o una massiccia condivisione di un post cambi
lo stato attuale delle cose mi sbrigo a scrivere il mio solito delirio.
Poi valuterò cosa fare.
Vedrò se cambiare le mie opinioni
riflettendo sui precisi risultati dell’attentissimo giudizio populistico
popolare di approfondimento e verifica o se mi limiterò a mettere un mi piace alla
foto di un gattino.
Bene, prima che la rete decreti
che i fiumi non scorrono più dalla fonte alla foce vorrei recensire una lettura
molto breve che ho fatto in questi giorni.
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Vi è mai capitato di osservare un
fiume? Se è un’esperienza che avete fatto, non abbiate paura a confessarla,
siete in compagnia di parecchi perditempo che si sono attardati sulle sponde
per guardare una massa d’acqua in movimento.
Alcuni hanno lasciato che questa contemplazione levigasse le loro parole al punto da spingerli a scrivere aforismi, poesie, romanzi o addirittura libri di filosofia.
Alcuni hanno lasciato che questa contemplazione levigasse le loro parole al punto da spingerli a scrivere aforismi, poesie, romanzi o addirittura libri di filosofia.
Credo sia pericoloso osservare la
natura, specie se agevola la riflessione.
Senza dissertare sui concetti
troppo astrusi, mi limito a tirare in ballo il classico “il fiume è come la
vita”.
Entrambi i soggetti partono da un
punto, scorrono – con o senza l’approvazione di Eraclito – e arrivano alla fine
del tragitto, semplice no?
Così tanto da non riuscire a
trattenere le vertigini quando si arriva a capire che tutto ha una fine, anche la
propria vita.
Ecco, forse è per questo lieve
disagio che tutto cerca di acquartierarsi nei gorghi per sfuggire alla
corrente, ma lasciamo perdere…
Nell’impazienza di allungare le
mie zampe sulla traduzione italiana di Jerusalem di Alan Moore, scusatemi ma
proprio non ho voglia di sciropparmi xmila pagine in inglese, e nel tentativo
di digerire l’abbandono dello stesso al mondo dei fumetti, ho ripreso a leggere
i fondamentali e mi sono accorto che, nel corso degli anni, ho girato al
largo da una sua pubblicazione che – a torto – ho sempre ritenuto minore:
Writing for Comics.
Nel corso degli anni Moore
qualche sciocchezza l’ha fatta. Per questo e altri ottimi motivi lo si può
odiare o amare, ma è chiaro che non lo si può ignorare.
Prima di lui i comics non erano
“alla Alan Moore”; esclusa qualche significativa eccezione, si trattava di una
forma d’arte più innocente e spensierata, con personaggi talvolta caratterizzati
con l’ascia e impegnati in avventure così incredibili da sembrare perfettamente
ridicole.
Quindi, per lenire la sottile
angoscia dell’attesa, dal mio spaccia-fumetti di fiducia ho recuperato il
titolo in questione.
Se devo essere sincero, subito mi
è sembrato un furto pagare 11, 90 € per uno dei volumi più sottili con cui sia
mai uscito dalla fumetteria, poco importa se ogni pagina è scritta su due
colonne, ma quando ho iniziato a leggere, ho capito che alcune cose non hanno
prezzo.
Ovviamente non è un manuale su
come scrivere sceneggiature, dato il personaggio non poteva esserlo, si tratta
di una riflessione sulla creazione dei fumetti, attraverso quattro capitoli e
una postfazione.
L’idea alla base: riflessioni sui
fumetti.
Raggiungere il lettore:
struttura, ritmo e narrazione.
Costruire un mondo – luogo e
personalità.
I dettagli: trama e
sceneggiatura.
Postfazione.
Avendo io qualche velleità
letteraria, l’ho trovata una lettura molto stimolante e la consiglierei, per
esteso, anche a chi non vuole narrare per immagini; se ogni volta che vi
mettete alla tastiera del pc vi ponete qualche domanda non su cosa scrivere, ma
su come scriverla, in Writing for comics non troverete una risposta, ma è
possibile che vi aiuti ad avere una maggiore consapevolezza su come raccontare
una storia, se sia meglio avere un’idea o una scaletta, se esiste una regola
matematica inviolabile per creare la trama perfetta o se un personaggio è più
vivo se ingabbiato dentro milioni di paletti, oppure quanto è lecito venerare
un maestro e quando arriva il momento di scavargli la fossa.
Queste e molte
altre “amenità” del genere trovano spazio nella lunga – e autoreferenziale –
confessione di Alan Moore, tutte cose che si tendono a non considerare quando
si scrive per sfornare l’ennesimo libro.
Che dire? Il suo addio ai fumetti
non mi ha turbato più di tanto, non mi è crollato il mondo addosso, sono rimaste
le sue opere (sia quelle riuscite che quelle non riuscite). Si è chiuso un
ciclo e noi possiamo solo andare avanti e scoprire quali altre meraviglie ha in
serbo per noi il mago di Northampton dopo quanto già apprezzato ne La voce del
fuoco.
Ce ne sarà un altro come lui?
Da circa venti anni, non senza la
complicità di malinconici fruitori, la creatività è finita in un maelstrom di
remake e fotocopie, sia il pubblico che gli artisti cercano di resistere
all’inevitabile fine di un’epoca.
Potere fermare il fiume e bagnarvi due
volte nella stessa acqua?
Anziché sprecare energie, risorse,
lacrime e pensieri dovremmo fare il possibile perché il domani sia migliore di
ieri e non l’ennesimo giorno della settimana che ritorna.
Poi, vedete voi!
Writing for comics di Alan Moore con
illustrazioni di Jacen Burrows. Panini Comics, Avatar press. 48 pagine, €
11,90.
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