Nove millimetri, la distanza
minima tra la vita e la morte. Un niente rispetto a tutti i metri che separano
il resto del mondo dal parapetto del viadotto. Da queste parti il mostro di
cemento è noto come ponte della
tangenziale. Con la lingua bagnata nella camomilla, gli autoctoni spacciano
per innocuo il trampolino per tuffarsi nell’Aldilà.
Biellesi, gente senza valvole di
sfogo, più schivi e scontrosi dell’orso che li rappresenta.
Che volete farci, Biella è povera nello spirito e nella
fantasia. Non ha nemmeno un fiume che l’attraversa ma solo il Cervo, un timido torrente.
Via la sicura, si va in scena. L’uomo
ha spinto l’auto ben oltre la normale viabilità per arrivare sino a Porta
Inferno. Passa una mano tra i capelli biondo sabbia per spostarli dalla fronte.
Si rammarica di non essere riuscito a infilare un altro mezzo giro di ruote, quello
con cui poteva ritrovarsi a mollo.
La sorte ha un pessimo senso
dell’umorismo, dalle casse dell’autoradio esce Nel blu dipinto di blu.
Apre il portellone della Punto. Rivede
il caro Cesare Ramella, taglia corto con la cortesia e i saluti. “Facciamo
così,” gli piazza la pistola sulla fronte, “ti aiuto a scendere, fai quello che
ti dico e, forse, resti vivo. Chiaro?”
Il passeggero annuisce dal fondo
del bagagliaio.
I fari vomitano luce asciutta nella
monocromatica indifferenza di uno dei soliti pomeriggi uggiosi. A causa della
persistenza del maltempo, uno del posto con la pioggia è in grado di avere la
stessa precisione linguistica di un esquimese con la neve. Infatti, stizza e le gocce sospese creano aloni
rugginosi con vaghi riflessi all’arcobaleno.
Senza grazia, strappa il nastro
isolante dalla bocca di Cesare e preleva un anticipo di dolore. “Non è colpa
mia, non mi uccida, la prego.” Non dice proprio così, nel temporale di scuse
che fiata esprime concetti simili.
“Se ti comporti bene, domani mattina
la puoi raccontare.” Gli fa sbattere la faccia piatta a terra, dall’abitacolo
recupera un coltellaccio da cucina per liberargli polsi e caviglie. Cerca di
provare piacere nel vederlo strisciare, ma è uno spettacolo penoso. “Adesso ti
rimetti in piedi e cammini verso i piloni,” dice, indicandogli la direzione.
Ora Cesare ha capito. Strizza gli
occhi verdi e inizia a tremare. “Devo camminare nel Cervo?”
“Sì.”
“Sino a dove?” Passa le mani sui
gomiti.
“Lo vedrai quando arrivi,” getta
la lama e torna a sventolare il ferro.
Cesare valuta le opzioni.
L’aguzzino ha un corpo secco che studia da pertica, mentre lui si ritrova con
un fisico coltivato a sport e aria aperta. È agile e scattante ma esclude
la possibilità di riuscire a schivare una pallottola. Così tra reagire e
obbedire, sceglie di giustificarsi di nuovo. “Come devo dirglielo, Ann.”
L’uomo lo colpisce, in un lampo
vola via una scheggia di dente e nel conto si aggiunge un labbro spaccato.
Beretta, non servono solo per
sparare.
“Vedi di stare zitto.” Tra l’eco
del rumore delle macchine, le vibrazioni della struttura e i lamenti del
rigagnolo a uno sputo dalle orecchie, si sente solo un fruscio.
Cesare potrebbe anche aver inteso:
“sei mai stato in Egitto?”
Certo, potrebbe anche aver
sentito: “fa come Cristo, cammina sulle acque,” ma spalanca le palpebre che è
un piacere quando il cane fa scricchiolare la molla.
Immerge la punta del piede senza
levarsi le scarpe per scoprire un’ovvietà.
“Sbrigati,” lo spinge, “sino a
quando tocchi non nuotare, altrimenti ti stanchi per nulla.”
Cesare naufraga in una
pozzanghera, quando ha bevuto a sufficienza riemerge e infila aria nei polmoni.
“Dai,” lo raggiunge, “eri già
fradicio,” e indica le nuvole antracite.
Tutti e due gocciolano da ogni
dove, i capelli ricalcano la forma del cranio e le caviglie sono percosse
dall’irruenza della corrente.
Avanzano nove millimetri alla
volta.
Per la forza dell’abitudine spolverano
con lo sguardo le montagne. Sono impalate sullo sfondo, mentre ogni cosa
degenera. Nell’orizzonte inciampano sugli scheletri dei fabbriconi riconvertiti
in call center e alla fine si schiantano sulla vista dell’ospedale abbandonato.
Un vecchio convento stuprato da un monoblocco di calcestruzzo fascista,
squadrato e grezzo quanto il vigore littorio.
Anche se Biella è medaglia d’oro
per la resistenza porta ancora la camicia nera. La prima toponomastica agli
occhi dei forestieri è dedicata alle ardite imprese del ventennio. Tanto per
dire Adua, Macallè, Tripoli, Bengasi, Zara e via di Eia! Eia! Eia! Alalà, le due
aquile in bronzo riciclate senza pudore, il giallo limone della stazione e la
stucchevole architettura del palazzo dell’unione industriale.
Il freddo regala ossa di
cristallo, basterebbe un brindisi per ridurle in frantumi. Emergono
dall’ombelico alla testa. L’uomo tira dritto, non è uno che si sbottona coi
sentimenti. Cesare Ramella prosegue oscillando tra la tentazione di arrivare
alla meta e fuggire lontano, molto lontano. Mastica la miscela umida e pesante
dei gas di scarico che cadono dall’alto, inghiotte troppo ossigeno sporco
mentre il cuore accelera il ritmo. Vede il grosso sasso qualche metro avanti,
sa di essere arrivato a destinazione.
Il masso è piatto, per dimensioni
e forma ricorda un letto matrimoniale preparato con lenzuola sofficissime. Un
posto invitante dove fermarsi a dormire. Invito rovinato dalla presenza di una informe
chiazza arancione, frastagliata e irregolare, a forma di schizzo.
“Ma questo è,” Cesare cambia pensieri,
poi: “è qui che”.
Morta, non lo dice. Alza la testa
per misurare la picchiata dal mazzo di fiori attaccato al parapetto allo
schianto. Trema come un sedicenne.
“Sì.” L’uomo preleva dalla tasca
della giacca il cellulare di Cesare. “Fatti una foto e che si veda bene la
pietra.”
“Non sono stato io. Era solo un
gioco, uno scherzo.” Tutti uguali i pezzi del branco, quando passano da
predatori a prede lasciano una scia di lacrime. “Non volevamo fare del male ad
Ann”. Tiene per sè il nome. “Non pensavamo che sua figlia, arrivasse a fare”.
Anche questa volta lascia la
frase a metà, evita di percorrere sino in fondo il sentiero che dalle parole
arriva alle conseguenze.
“Fallo e postala su tutti i
social.” L’uomo mostra una manciata di denti, poi: “scrivi, ecco come finiscono i miei giochi.”
Il selfie che ne viene fuori è allegro
quanto una barzelletta scontata. Lo scatto è un’indistinta sfumatura di grigio,
tra i due soggetti è difficile capire quale sia il più pallido, se il ragazzo con
la faccia triste o la roccia con l’espressione dura.
Cesare fa ballare il tip tap alle
dita. “Mi lascerà andare, vero?”
“Come no.”
Il proiettile imprime i contorni del terzo occhio sulla
fronte di Cesare, apre una finestra sull’infinito da cui si affaccerà sull’eternità.
Il sangue nuovo non lava la lapide, la sporca e basta.
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