Nell'epoca della crisi e del precariato, il posto fisso è davvero il paradiso?
Solo
su appuntamento.
I
Non
vivo l’esistenza che vorrei. L’omicidio è l’unica alternativa;
non posso fare altro, non devo fare altro, non voglio fare altro.
Quattro
pareti di vetro satinato mi dividono dal resto del mondo. Una sedia
con telaio di polipropilene e rivestimento acrilico grigio mi
costringe a rimane seduto. Un tavolo bianco in fornica. Uno schedario
metallico raccoglie le poche cose che devo sapere. La moquette verde
marcio attutisce qualsiasi rumore.
Qualcuno
che non ha mai fatto il mio lavoro, ha deciso i tempi per:
compilazione, formulazione e archiviazione. Il pc sotto il tavolo
vomita dal monitor promesse di scenari impossibili. L’applicativo
che uso calcola, ordina, elabora. Ogni anno la macchina diventa più
veloce, il programma più semplice. I tempi per ogni pratica si
accorciano nel nome della Santa Efficienza.
Inserisco
dati come una scimmia ammaestrata; devo dare in pasto al computer
cifre, percentuali, indirizzi, numeri di conto e di previdenza.
Devo
essere veloce.
Faccio
sempre le stesse cose, dico sempre le stesse cose, spiego sempre le
stesse cose.
Gli
altri oltre il piano lucido non lo sanno. Loro vogliono qualcuno che
li ascolti. Ti devono spiegare cose che sai già, ti devono spiegare
come inserire i dati, come calcolare, elaborare, formulare. Loro
vogliono farmi inserire i numeri di previdenza e di conto in maniera
più efficiente.
Loro
sono un programma fornito di volontà.
Sono
un fortunato a tempo indeterminato.
Il
mio lavoro, il mio pc, il mio monitor, la mia sedia grigia, la mia
scrivania bianca, la mia moquette verde, il mio schedario metallico,
il mio cubicolo con vetri satinati e i miei “loro”, hanno un
nome: alienazione.
Il
tempo è scaduto: è l’ora dell’omicidio.
Abbandono
la tensione. Mi rilasso. Appoggio la schiena sulla sedia. Un respiro
profondo.
Davanti
a me c’è seduta una donna che impugna una fattura come una spada.
Ascolto le sue parole; sembrano il rumore di una stampante,
bla-bla-bla pausa, bla-bla-bla pausa, bla-bla-bla pausa.
Tace
e mi fissa. Ha finito di stampare le sue parole nel vuoto.
Sorrido.
Considero
la femmina che ho davanti come una “cosa”. Lei è un contenitore
biodegradabile pieno di nervi tesi, organi curati, capelli tinti,
muscoli allenati, gambe depilate, occhi truccati, sorriso di
circostanza e nemmeno un filo di grasso.
Vorrei
prendere la cucitrice e pinzarle un labbro, infilzarle una penna
nell’occhio, piantarle le puntine sulla fronte, ricoprirla di
post-it gialli, farle ingoiare un evidenziatore azzurro, riempirle la
bocca con le gomme bianche, strangolarla con il filo del mouse,
percuoterla con la tastiera, squartarla con un taglierino, estrarle
le interiora, fotocopiarle in modalità fronte-retro.
“Mi
scusi, ma perché non può inserire anche questa?” dice,
porgendomela.
Con
queste fantasie non terminerò la pratica nei tempi previsti. Ma
questo non è più un problema.
Dopo
una rapida occhiata vedo scritto il nome di un perfetto sconosciuto.
“Signora
–rispondo- questa è intestata a qualcuno che non è lei. Non può
essere ricompresa nella sua pratica. Mi dispiace. Non posso fare
altrimenti.”
La
donna riprende il pezzo di carta e comincia a pensare.
La
pelle del suo viso è idratata. L’abbronzatura tenta di nascondere
le prime rughe. In alcune espressioni si vede la faccia che inizia a
colarle lungo i lineamenti. Per nascondere l’invecchiamento va in
palestra e rassoda glutei, fianchi e seno. Segue dieta ferree fatte
di fame, rinunce e barrette energetiche. Questo regime è integrato
con sigarette light. Il dito indice della mano destra ha un lieve
alone giallo che risalta vicino allo smalto rosa confetto. Il suo
alito sa di menta con un retrogusto di cenere. I denti sono bianchi
ma opachi. Il trucco intorno agli occhi ne risalta il taglio e
inganna sulla presenza delle borse.
Oltre
l’apparenza è una bambola di pezza. Chiudo la pratica e guardo la
sua data di nascita: quarantuno anni.
“Le
spiego; questa è intestata al mio compagno, ma sono io che l’ho
pagata. Io mi prendo la responsabilità e lei la inserisce!”
Non
ho più voglia di rispiegare il motivo per cui la sua cazzo di
fattura non può essere inserita nella sua fottutissima pratica.
Sorrido,
apro il primo cassetto. Prendo la pistola e gliela punto contro.
“Lei-non-può-includerla-nella-pratica”
dico, scandendo le parole.
La
“cosa” che ho di fronte, nell’ordine: sbarra gli occhi, perde
il colore dell’abbronzatura, piega verso il basso gli angoli della
bocca e inizia a tremare.
“Non
urli. Non si muova. Non parli. Stia buona. Altrimenti la rendo
definitivamente immortale. Ha capito?”
Deglutisce,
fissa la canna e rimane immobile.
“Come
si chiama?” le chiedo.
“Vanessa”
sussurra.
Lascio
che si abitui all’idea di avere un'arma da fuoco puntata contro.
L’adrenalina deve aver rimesso in moto il sangue. La sua
abbronzatura da centro estetico ha ripreso colore. La sua pelle è
giallo sporco, pastello e slavato come qualcosa che sa di malattia;
come un cancro che la consuma dentro, una necrosi dei tessuti
interni, una leucemia fulminante, un virus che le manda in
cortocircuito tutte le cellule.
Qualcuno
bussa. Controllo l’ora sul monitor. L’appuntamento dovrebbe
essere finito da cinque minuti. Guardo la sagoma sul vetro satinato,
sembra quella di un essere umano.
“Non
fiatare, altrimenti ti uccido” dico a Vanessa. Faccio sparire la
semi automatica sotto la scrivania.
“Avanti.”
La
porta si apre. Appare un uomo sulla trentina. Capelli corti e barba
incolta. Accenna un sorriso in direzione di Vanessa, poi mi guarda e
dice: “Mi scusi. Vorrei farle una domanda veloce.”
Sorrido.
“Posso darle una risposta veloce?”
Pensa
a quello che ho detto. Si riprende e ne approfitta per chiudere la
porta alle sue spalle.
Appena
si volta lo scocciatore ricompare la rivoltella. L’imbucato si
blocca.
“No,
non la scuso. Si accomodi, prima di farsi del male.”
II
Il
quasi giovane vorrebbe reagire, ma capisce di non avere alternative.
Guarda la donna e obbedisce. Le due sedie davanti a me sono occupate.
L’ultimo arrivato deve aver iniziato da poco a perdere i capelli.
Il suo inutile taglio rasato non nasconde la nascente pelata che si
fa strada sul cranio. La barba incolta racconta qualcosa di lui; una
finta trascuratezza, una sorta di: non
me ne frega niente, io sono “cool”.
L’abbigliamento
è troppo giovanile per i suoi trenta-trentacinque anni; sembra un
adolescente televisivo anni ‘80. Carne troppo vecchia costretta in
panni troppo stretti. Pantaloni con più tasche di quelli di un
carpentiere, blue jeans invecchiati prima di essere consumati. Una
polo rosso lampone e delle maniche lunghe bianche sino al polso, come
se qualcuno avesse invertito l’ordine degli strati con cui
coprirlo. Un costosissimo orologio di purissima plastica e una
catenina surfer che sembra strozzarlo ogni volta che respira.
Un
ex adolescente.
Non
mi aspettavo che si trasformasse in una cosa “a tre”. Avrei
dovuto uccidere subito Vanessa.
Ho
perso tempo, sono in ritardo.
“Lei
aveva l’appuntamento cinque minuti fa, vero?” dico rivolto a lui.
“Si,
ma l’avverto che…” non riesce a finire la frase perché gli
avvicino la calibro 9 alla faccia.
Sollevo
il cane. “Crick” amo quel rumore metallico che gratta il
silenzio; è la sinfonia della morte, così breve e intensa.
“Non
dica nient’altro. Potrei sbagliare e spararle.”
Per
l'intruso è arrivato il tempo di impallidire. Il suo istinto di
conservazione non funziona. Non reagisce. Rimane immobile. La sua
espressione significa paura.
Devo
pensare. Guardo i due e cerco di concentrarmi; quel cervello che vedo
spalmato sulla parete non esiste. Vorrei fosse vero, ma non è reale.
Sento l’odore di cordite e carne bruciata.
Strizzo
gli occhi e il cubicolo torna normale.
“Ho
un problema – dico rivolto al tizio – volevo ucciderla, poi è
entrato lei e ha rovinato tutto.”
Occhi
dolci scoppia a piangere; se fosse pioggia sarebbe novembre. Lacrime
costanti in continuo aumento, paura di morire in bassa pressione.
Ecco il bollettino barometrico della cliente.
La
osservo e cerco di capire cosa prova. Vedo solo un sacco
dell’immondizia che tira su con il naso. L’espressione tende
all’angoscia. Una maschera muta che vira verso il dolore. Il trucco
le si è sparso per tutta la faccia. Sembra un panda anoressico
vestito da pagliaccio.
La
vittima predestinata sussurra qualcosa.
“Vanessa,
alza la voce!”
“Prenda
lui e mi lasci andare” ripete.
Lacrima
Girl abbassa il capo e fissa il pavimento. Con una mano si massaggia
il gomito. La vergogna la fa sentire sporca.
Le
donne ispirano gli artisti. Per uno come me l’ispirazione è tutto.
Le
idee semplici aprono epoche nuove.
La
paura ha allentato la presa sui muscoli del gentleman.
“Brutta
troia. Sei tu che devi morire, non io” dice, ignorandomi.
Ha
capito quanto le idee siano pericolose quando incontrano una mente
fertile.
Questi
due e la loro voglia di vivere valgono oro. La proposta di lei mi ha
suggerito la soluzione; non sarò io a decidere chi muore per primo.
Io uccido il gladiatore che sopravvive.
Batto
il calcio sul tavolo. I due sussultano. Pensano sia partito un colpo.
Sorrido
divertito.
“Signori,
per favore manteniamo un contegno. Vanessa non è una troia , almeno
credo, e lei non sarà preso al posto di nessuno. Come si chiama?”
“Matteo
Pracetti” risponde tutto d’un fiato.
Guardo
oltre la mia postazione di lavoro e osservo la macchia scura sui
pantaloni. Dal taschino, con la mano sinistra, estraggo un pacchetto
di fazzoletti e glielo lancio.
“Cosa
me ne faccio?”
“Si
asciughi e mi ascolti.”
Ne
estrae uno e lo stende tra le gambe. In pochi secondi è zuppo.
“Vanessa
ti presento Matteo. Matteo ti presento Vanessa.”
I
due si guardano.
“Allora
– dico appoggiandomi allo schienale – voi due dovrete lottare per
la vostra salvezza. Chi dei due sopravviv…”
Vanessa
si lancia sul collo di Matteo. Non gli lascia il tempo di reagire. Le
unghiette rosa affondano nella pelle dell'avversario che le afferra i
polsi e cerca di liberarsi. Inizia a diventare rosso. Non capisco se
per lo sforzo o per la mancanza d’aria.
Il
surfer sposta il baricentro all’indietro. Rovescia la sedia,
trascinandosi dietro la bella spiaggiata.
“Non
fate rumore” dico e mi alzo in piedi.
L'asino
scalcia come un mulo ed emette un ringhio appena udibile, mentre la
cavallona stringe i denti.
Tutto
il suo vantaggio scompare quando il diversamente giovane le sferra un
pugno. Colpisce alla tempia, stordendola quanto basta. Quando parte
il secondo diretto, si copre la faccia con le mani.
I
due si rimettono in piedi. Lei carica e lo spinge all’angolo.
La
tigre della fattura cerca il contatto per tenere lontano i colpi.
Appena è vicina, adotta la tattica vampiro amoroso.
I
suoi denti pizzicano la parte destra del collo.
Il
peso piuma urla. Devo ammettere che ha una buona estensione vocale.
Il
sangue inizia a circondare le labbra di lei, Il bacio è
appassionato.
Il
boxeur si stacca dalla sanguisuga, gettandola a terra. Si porta una
mano al collo e inizia e ripetere “cazzo” sino a svuotare la
parola di ogni significato.
La
lottatrice striscia all’indietro e sputa un pezzo del pugile sulla
moquette verde. Il sangue e la saliva le colano sul mento. Si toglie
una scarpa. La afferra puntando il tacco verso Matteo.
All’improvviso
l'uscio si spalanca.
Il
Dottor Bianchi Guido, laureatosi in economia nel lontano ottantatré
appare a figura intera. Scarpe marroni sotto un completo nero. Il
prototipo dello stronzo a capo di una serie di sottoposti sfigati
come me. Le scarpe non solo sono ridicole, ma un simbolo. Lui ama
calpestare tutti quei vermi intrappolati nel fango; adora schiacciare
sotto il tacco gli impiegati striscianti con un livello in meno del
suo. Sta per dire qualcosa, ma si trattiene. Alza lo sguardo. Nota la
Beterra nella mia mano. Aggrotta le sopracciglia e chiede: “Cosa
sta succedendo?”
III
Sparo
il primo colpo verso il Dottor Bianchi. Cade a terra. Non emette
suono. La gente in attesa rimane allibita. La prima a urlare è una
pensionata. Una pensionapunk con capelli sul violetto e pelle rugosa,
non riesce a sollevarsi dalla poltrona. Una tartaruga costretta in un
sobrio vestito “da bara” .
Matteo
e Vanessa mi guardano.
Tutti
gli altri scappano urlando. La vecchia arranca ancora senza visibili
risultati.
Parte
il secondo colpo. Centro la cariatide. Gorgoglia e si affloscia come
una bambola gonfiabile bucata.
Forse
i due combattenti si sono spaventati. Uno si è coperto la faccia con
le braccia mentre l'altra si protegge la testa tra le mani. Il tacco
le affonda nei capelli.
Quando
capiscono di essere vivi, mi guardano.
“Scusate
l’interruzione. Continuate pure.”
Due
colpi e due cadaveri. Non credevo di essere così bravo.
Riprendono
la lotta, ma senza convinzione. Lei batte i pugni sul petto di lui,
mentre l’abbraccio del maschio sembra essere una pessima imitazione
delle telenovelas argentine anni ‘70. Vanessa ricomincia a
piangere.
Ci
manca soltanto che lui la guardi negli occhi e le dica: ti
amo.
Vedo
Matteo legato, appeso per la bocca a un gancio da macellaio. Si
agita, tenta di liberarsi. Vuole parlare ma urla solo vocali. Vanessa
adagiata a terra, tagliata in tanti pezzi, disposti secondo un ordine
di grandezza.
I
due sono distanti dalle mie fantasie.
Sparo
Il terzo colpo che taglia l’aria tra loro e torno alla realtà.
“Non
ci siamo capiti. Così mi fate morire di noia. Uno dei due deve
ammazzare l’altro, capito? Metteteci più passione! Vanessa usa
quel tacco e tu, Matteo, tira fuori la rabbia! Quei bicipiti non li
hai solo per riempire le magliette. Dai ragazzi, c’è in palio la
vita!”
Mi
sembra di dovere motivare due attori su un set di un film porno.
“Lei
non può obbligarci a fare questo."
Amo
guardare i documentari alla tv. Mi piace sentire una voce calma di
sottofondo a un omicidio che dice: ecco
il
predatore che afferra la preda.
Elogio dell’omicidio a scopi educativi. Seguo anche quelli del
canale 375 a carattere storico o sociologico. Esplosioni, caccia
bombardieri e soldati americani in Vietnam, in Corea, in Francia, in
Afghanistan, in Iraq, in Giappone.
Carestie,
dittatori, profughi, violenza, cadaveri, cadaveri e ancora cadaveri.
Poi
la voce calma:
la guerra è l’igiene dei popoli.
Il
quarto colpo trapassa la coscia di Matteo. La macchia scura dei suoi
pantaloni si tinge di rosso. L’arteria pompa sangue fuori dal
corpo. Stringe la gamba e urla, cerca di fuggire, ma cade a terra
poco distante dal fu Guido Bianchi dottore. Inizia a piangere.
Non
doveva sfidarmi.
Mi
volto verso Vanessa, sparo il quinto colpo che la spinge a terra. Sul
fianco destro le sboccia uno piccolo fiore rosso.
“Non
potevo avvantaggiarti” dico.
Giro
intorno alla stanza. Mi avvicino a lui per chiedergli cosa pensava di
ottenere con la sua saggezza disperata.
Il
suo petto è immobile. Ha smesso di respirare. Morto.
Vanessa
preme la mano sulla ferita. Appena si accorge che la guardo, cerca di
alzarsi.
Sirene
poco distanti. La festa sta per finire.
Attendo,
ma nessuna fantasia irrompe. Strizzo gli occhi, ma nulla è cambiato.
La realtà è deludente.
Mi
avvicino, la aiuto ad alzarsi e le dico: “Vai pure, sei libera.
Volevo uccidere chi fosse rimasto in vita, ma Matteo ha pensato bene
di morire per così poco. Iniziavate ad annoiarmi. Vattene.”
La
aiuto a scavalcare le carcasse dei due. Usciti, la spingo via.
Zoppica con la gamba destra. Piccole gocce di sangue segnano il suo
passaggio.
Sono
le sue bricioline per ritrovare la strada se vuole farsi ammazzare.
Mi
avvicino alle finestre e vedo arrivare la prima volante della
Polizia. Scendono due poliziotti.
In
strada tutti mi stanno guardando.
L’anziana
sgonfia sulla poltrona è immobile.
“Ha
visto signora? Peccato che non possa raccontarlo alle amiche.”
Saluto
i passanti in strada.
IV
Non
si sentono più sirene e, purtroppo, Vanessa non è tornata. Una
calma irreale è scesa nel palazzo. Il rumore del traffico è
cessato. Il ticchettio della lancetta dei secondi scandisce il tempo.
La ventola del pc ruggisce a intervalli discontinui. Sono seduto e
fisso il monitor.
SONO
PASSATI DIECI MINUTI.
Screensavers
aziendali. Servono a ricordarti di non perdere tempo.
Muovo
il mouse. Il cursore lampeggia nella casella “Note spese e
investimenti”. Schiaccio la X rossa in alto a destra. Una
casella mi avvisa che le modifiche andranno perse. Schiaccio OK. Mi
chiede se sono sicuro. Sì, sono sicuro.
Appare
l’isola tropicale.
Quel
luogo non esiste.
Mi
sento libero.
Sono
stanco.
Chiudo
gli occhi.
V
“Alzati
lentamente con le mani in vista!”
Sono
quattro celerini. Uno di quelli, ma non riesco a capire quale, parla
come gli sbirri della tv. Giubbotto antiproiettile. Pistole spianate,
avanzano piano verso di me.
Ripeto
le parole di Albert Camus.
Giudicare
se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere
al quesito fondamentale della filosofia.
Sollevo
la spara piombo e la punto verso il corridoio. Quando la vedono si
irrigidiscono.
Sparare
o non sparare?
penso.
Vale
la pena vivere?
Sì.
Se muoio non posso ammazzare altra gente. Un colpo non basta per
uccidere tutto il mondo.
Peccato.
Mi
alzo e lascio cadere la pistola.
Appena
stacco le mani dalla sei colpi mi piombano addosso, senza
dimenticarsi di farmi molto male.
Una
divisa, la versione small dell’incredibile Hulk in tinta blu, mi
ammanetta.
“Sei
in arresto!” dice.
Rispondo:
“Io lavoro solo su appuntamento.”
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