Avevo undici anni quando ai miei
genitori venne la fantastica idea di abbandonare la città e trasferirsi in un
paesino in collina. Tanto per intenderci, mettere su casa in quel posto
dimenticato da Dio fu una mossa astuta quanto maneggiare un parafulmine durante
un temporale ma lasciamo perdere, arriviamo al dunque.
Tra i vecchi del paese c’era tal
Franco Aglietti, aveva un corpo secco tutto pelle e nervi, nonostante andasse
spedito per i settanta e sul capo sfoggiava una folta chioma bianca. La cosa
che non riuscivo a capire era perché tutti lo chiamassero Eraldo, così un
giorno decisi di sciogliere i dubbi e andai a chiederglielo.
Immaginatevi la scena. Fine degli
anni ’80, nel circolino c’era la bandiera del Pci dietro al bancone resa opaca
dalle nuvole di fumo delle Nazionali e le Alfa senza filtro. Un posto in cui
giocare a scopa non era un innocente passatempo ma un’arte.
“Mi scusi Signor Franco, ma
perché tutti la chiamano Eraldo?” chiesi, pensando di ottenere una risposta
sensata.
“Grazie del signor ma sono solo
l’Eraldo e tu com’è che ti chiami?”
“Mirko.”
“Bene Mirko, quando andrai a
sparare ai fascisti è meglio se ti cerchi un altro nome, altrimenti te li
ritrovi in casa che fan la festa alla tua famiglia.”
Senza troppi fronzoli e meglio di
qualche film che mi era capitato di vedere, mi aveva spiegato perché i
partigiani avevano tutti un nome di battaglia.
Mando avanti veloce il nastro dei
miei ricordi e mi fermo a quando avevo quindici anni circa.
L’Eraldo era ancora più secco,
però non era più tutto pelle e nervi ma quel poco che rimaneva di una brutta
malattia, di quelle che ti consumano dentro. Nessuno si era preso la briga di
farglielo sapere, la moglie e i figli gli ripetevano che, per la sua costituzione,
era normale smagrirsi e tutti quei dolori allo stomaco erano per il vino e non
per le pastiglie che gli aveva prescritto il dottore.
Tra la prima risposta e l’ultima
chiacchierata avevamo trascorso qualche pomeriggio assieme e, per lo più, gli
rompevo le scatole per farmi raccontare “della guerra”.
Il pomeriggio in cui lasciò la
pelle in eredità ai parenti, si presentò a casa sua mio nonno.
Per quello che ne sapevo, sostenevano
di non essersi mai conosciuti e, se Eraldo sembrava ancora levigato dalla
sabbia del deserto Africano, mio nonno portava sul volto gli spigoli dell’inverno
russo. Com’è che ora viene fuori che i due non solo si conoscono ma avevano
qualcosa in comune?
La risposta l’ho saputa non nel
tempo che si impiega nel leggere un paio di righe ma qualche anno dopo, per la
precisione quando mio nonno mi disse come mai voleva andare a funghi sempre nello
stesso posto.
“Hai presente il sentiero? Dove
c’è la curva con le due pietre una davanti all’altra? Beh, lì c’è sepolta una
cassa piena di armi.”
Ho anche scoperto come e perché i
due si conoscevano, ma questa è un’altra storia ed è giunto il momento di
scrivere la recensione a Il segreto del Voltone di Diego Collaveri, romanzo che
segna il ritorno del Commissario Mario Botteghi e gli agenti Busdraghi e
Mantovan
Ambientato a Livorno, si apre con
uno squarcio di una notte del ’47 e del patto che tre partigiani rinnovano per
mantenere nascosto qualcosa al resto del mondo.
Ai giorni nostri la voce narrante
del Commissario Botteghi porta il lettore a scoprire l’identità dell’assassino
di Joseph Brennan, un turista americano il cui cadavere viene ritrovato a mollo
nelle acque sotto il Voltone.
Il voltone è “Il voltone”,
tautologia chiara solo ai livornesi, per tutti gli altri è la volta che ricopre
il Fosso Reale e su cui sorge Piazza della Repubblica. Un progetto compiuto
nella prima metà del XIX secolo e che serviva a collegare la città fortificata
del Buontalenti con i nuovi insediamenti urbani che all’epoca si sviluppavano
oltre il canale.
Ora che ho sfoggiato un po’ di
cultura (rubata a piene mani dalla spiegazione ben più completa data dall’autore),
entriamo nel vivo delle indagini. L’omicidio è collegato al passato, agli
accordi segreti tra l’Italia e l’Inghilterra, alla liberazione della citta dai
tedeschi e ha il suo unico movente in ciò che è seppellito nei magazzini del
Voltone.
Dopo sessantanove anni qualcuno
ha attirato in Italia Joseph, fratello di John Brennan artificiere del Sesto
Reparto della Quinta Divisione Armata Americana, militare non irreprensibile
coinvolto in un misterioso regolamento di conti con alcuni civili.
Gli indizi che portano alla
soluzione del caso non sono solo nel presente, ma si trovano gelosamente custoditi
nelle pieghe di una vita prima. Chi muove i fili di questa caccia al tesoro? L’eredità
genetica lasciata dai liberatori, le lunghe propaggini dell’Ovra, la polizia segreta
fascista, o qualcuno senza scrupoli interessato a recuperare un’eredità mai
ricevuta
Ovviamente per avere la risposta
è necessario leggere il Segreto del Voltone.
La trama ha un ritmo serrato.
Botteghi ha sul collo il fiato corto dell’ambasciata americana poco incline a
rivisitare eventi che è meglio lasciare nella versione ufficiale, quella
riassunta sui libri di storia.
Non ho provato piacere nella
lettura solo per le “quasi” coincidenze con la storia che mi riguarda (tranquilli
non è una cassa d’armi… è una cosa che non vi dico), ma per l’opportunità di
trovare un interessante confronto tra paste di uomini di ieri e di oggi;
intendiamoci, non sono propenso alla celebrazione del “c’era una volta”, ma è
chiaro che di questi tempi non siamo più fatti di pane ma di pasta frolla, se
capite cosa intendo.
Un romanzo onesto, non fabbrica
complotti assurdi o improbabili storie alternative, ma si percepisce alla base
della finzione narrativa una buona ricostruzione storica libera da fantasie e
farneticazioni. Una misura che dona anima e sostanza a un giallo diretto, di
quelli che appassionano sin da subito e intrappolano il lettore tra le vie e le
atmosfere di Livorno.
Il segreto del Voltone di Diego Collaveri, Frilli Editori. 250 pagine, 2016.
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