giovedì 24 novembre 2016

Hai carta bianca.




Hai carta bianca.

“L’universo paralizzato ci si para davanti come un lebbroso”. In Moby Dick Melville riassume con queste poche parole l’orrore che si nasconde dietro al più candido dei colori: il bianco. L’assenza di tutti i colori o la fusione di essi non è ciò che “con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità disumane dell’universo e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dell’annullamento”? Lo scrittore che fissa l’abisso della pagina bianca, sprofonda in questo nulla di carta e cerca le parole adatte per dare forma all’ignoto. Cerca l’inizio o “il cominciamento”, come lo definì Hegel, con cui combattere l’annullamento che incalza.


Il nulla della pagina contro l’essere delle parole, un atto creativo che si avvia nella fantasia dell’autore che diviene scrittura e in seguito narrazione. Lo scrittore vive circondato da pagine che lo spingono a combattere contro l’annullamento; vive intrappolato dentro una “prigione di carta” (prendo in prestito il titolo di un albo in cui Dylan Dog indaga sui poteri della narrazione e su quanto siano reali gli incubi dello scrittore Charlie Chivazky).


La soluzione sta nello sfondare quei muri di carta, riscrivere la minaccia con la forma di una storia; rendere l’ignoto qualcosa che si possa conoscere e capire. La creazione rimane sempre l’atto di trarre qualcosa dal nulla.
Una sorta di immortalità è ciò che si ricerca quando si scrive. La possibilità di andare oltre il sé, sconfiggere la morte e rimanere più del limitato tempo di cui disponiamo.
Come per religioni e altre forme di credenze si prospetta l’effimera immortalità. Ecco perché lo scrittore sente il bisogno di scrivere. A chi non comprende questo impellente bisogno, ora chiedo: “Perché allora vi meraviglia questa caccia feroce?”


Eppure oltre alle nostre illusioni non esiste l’immortalità, tutto presto svanirà. Come il banco anche il bianco vince sempre. Moby Dick trascina il Pequod in fondo all’oceano e lascia un solo sopravvissuto nella sua solitudine a raccontare il destino di tutti.

Un edificio di periferia che inizia a muoversi, una pensionata coinvolta in una strana serie di furti al supermercato, una donna con uno spiccato sesto senso che si trova a suo agio solo tra gli alberi. Sono storie che, come ha spiegato lo stesso autore: “ho scritto sui miei muri di carta, quelle pareti sottili che ci separano da tutto quello che non sappiamo spiegare, l’altro” e, ci aggiungerei, sono il tentativo di trovare una forma di riscatto alla condizione umana attraverso l’orrore della fantasia.
Muri di carta è il titolo della raccolta di racconti di John Ajvide Lindqvist. Undici fantasie che lasciano trasparire l’inconsistenza tra la realtà e l’incomprensibile e due racconti presenti nell’antologia concludono alcune vicende lasciate in sospeso nei più noti Lasciami entrare e L’estate dei morti viventi.

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