Per moltissimi anni ho
considerato Simmo 'e Napule paisà l’inno
nazionale della peggiore Italia. Intendiamoci, il mio disprezzo non era dovuto
a una qualche manifestazione di leghismo latente o all’incapacità di comporre
un pensiero compiuto propria di alcune bestie ignoranti (che fondamentalmente è
leghismo tout court), ma per il contenuto che veicolava a squarciagola.
Basta ca ce sta 'o sole,
ca 'nce rimasto 'o mare,
[…]
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto...
chi ha dato, ha dato, ha dato...
scurdámmoce 'o ppassato,
Quindi non
importa quel che ho fatto o quel che ho subito, perché basta lasciar passare un
po’ di tempo, aggiungere un po’ di sole e un po’ di mare, intanto la somma
viene a zero.
Allora la
fissazione dell’abolizione del reato di falso in bilancio non era di uno solo
ma di chiunque canti e creda a una sciocchezza simile.
Cerchiamo di
essere seri. Esiste una cosa chiamata responsabilità, ne avete mai sentito
parlare? Nella versione positiva si chiama merito ed è la scarpetta che calza
nel piede giusto per riconoscere onore e meriti all’esecutore, mentre nella
versione negativa è – appunto – responsabilità ed è l’impronta digitale che
inchioda il colpevole sulla scena del delitto.
Vi è mai
capitato di avere a che fare con qualcuno che in passato vi ha danneggiato e,
come se nulla fosse, vi si presenta con un sorriso farcito di denti e ipocrisia?
Avete notato che se provate a ricordargli perché lo avete allontanato dalla
vostra vita, indossa la peggior faccia di bronzo e dice cose del tipo: “ma è
passato tanto tempo” o “pensi ancora a quelle cose lì?”.
Certo che ci
penso, non mi basta un po’ di mare e di sole per dimenticarmi tutto!
Insomma,
anche un capolavoro tragico come Il libro di Giobbe ha un happy end che lo
rovina. Perché il “vissero tutti felici e contenti” non resuscita mai i morti,
quelli rimangono sotto terra e, purtroppo, non pesano mai sulla coscienza di chi
gli ha scavato la fossa.
Però, e qui
il colpo di scena, un giorno ho capito a cosa serviva una canzonetta simile. Fu
scritta nel ’44 e immagino quante vite possa aver salvato dopo l’armistizio e
oltre; dalle mie parti - come nel resto d’Italia - c’erano paesini minuscoli in
cui gli abitanti continuavano a spararsi tra di loro con la scusa di avere o
non avere indossato una camicia nera. Magari c’erano anche altri futili motivi
di confini e vecchie ruggini nate nella notte dei tempi ma ogni scusa era buona
per liberarsi del piombo avanzato dal conflitto. D’accordo, Simmo 'e Napule paisà non ha fatto riporre
le armi, ma è stato un antidoto popolar populistico che può aver in parte contribuito
a far cessare le ostilità.
Non
si butta via niente, se funziona certo, ma raggiunta la tranquillità la
giustizia avrebbe dovuto rimettere a posto le cose.
Avrebbe
dovuto, il condizionale è d’obbligo in Italia, perché tra trasformismi politici
e insabbiamenti… chi ha dato, ha dato, chi ha avuto, ha avuto.
Dopo
aver sprecato il mio solito numero di parole, passo a Il Giallo di Caserme
Rosse un buon romanzo di Massimo Fagnoni che squarcia il falso nel bilancio
storico e innesca un passato esplosivo.
In
una notte del dicembre ’43 Andrea Fanti vuole abbandonare Bologna per
raggiungere i partigiani ma due misteriosi personaggi lo rapiscono. Nel 2014 durante
la deposizione della lapide commemorativa per i deportati della città, Achille
Tassinari il presidente della EdilEmiRo, la più grande cooperativa edile dell’Emilia
Romagna e persona legata alle associazioni partigiani e con molte aderenze
politiche, dichiara di voler scoprire il destino di Andrea Fanti. Il caso viene
affidato a Galeazzo Trebbi che dovrà districarsi tra ambizioni politiche e
motivazioni personali di Tassinari per scoprire cosa accadde ad Andrea all’arrivo
a Caserme Rosse e perché sparì nel nulla.
Per
chi non è di Bologna, Caserme Rosse era un centro di raccolta per i detenuti comuni
e politici in attesa di essere deportati nei campi di “lavoro” nazisti.
Il
passato è sempre una mina inesplosa nascosta sotto qualche strato di memoria,
basta un passo falso per innescare un cold case che travolge anziani smemorati
e giovanissimi ex militari dell’est Europa.
Come
nei precedenti lavori, anche questa volta Fagnoni non si limita a costruire una
sana e robusta trama gialla ma rappresenta anche il cuore e l’anima di Bologna.
Questo aspetto è evidente sia nella trama principale che fa rivivere la città
scomparsa sotto i bombardamenti alleati e nella sottotrama ambientata ai giorni
nostri che mostra la crescita di Galeazzo Trebbi e introduce comprimari come
Faid, Claudio e Nikita. Con questo “poker” l’autore ha il merito di esplorare un
sottobosco sociale che coinvolge emigrati, omosessualità e prostituzione, senza
mai scadere nel razzismo più becero o nell’altrettanto becero buonismo da politically
correct.
Fagnoni
ha scritto un noir metropolitano, una piacevole cartolina bolognese e una raccolta
di dialetto al ragù ma, e qui sta la differenza, il tutto è maggiore della
somma delle parti e rende Il giallo di Caserme Rosse un libro da leggere. Se
ancora non lo avete fatto, per avere un’esperienza più corposa vi consiglio di
recuperare anche Il silenzio della bassa e Bologna non c’è più.
Il
Giallo di Caserme Rosse di Massimo Fagnoni, I Tascabili Noir, Fratelli Frilli
Editori. 280 pagine, 2016.
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