domenica 28 gennaio 2018

La melomane incallita.


Qualche tempo fa mi ronzava in testa la scadenza di un modello F24 e, per non mettere su un alveare nel cranio, decisi di andare a pagarlo. All’ufficio postale il caso mi ritenne degno di un posto a sedere, così mi sistemai sull’unica poltroncina verde disponibile. Si trattava di una di quelle allineate, le stesse che qualche designer con fantasia economica adatta ai prezzi stock aveva progettato per favorire lo stupro dello spazio vitale di chi se ne serviva.
Fu così che mi ritrovai incastrata nel fianco, come il pezzo a S di Tetris, una geriatrica intrattenitrice con tanto di capelli viola tenue e bocca raggrinzita dagli anni. Nell’attesa innescò una conversazione. Fu una chiacchierata molesta, settata sul principio “devi sapere tutto di me”. Terminati i convenevoli con una radiografia verbale, iniziò a pubblicizzare la sua presenza alla prima di una non ricordo più quale opera lirica in un teatro ancora più sperduto dell’ufficio postale in cui eravamo.


“Le piace la lirica?” Chiese, soprattutto per misurare chi tra i due partecipava a più eventi mondani.
“No, non incontra i miei gusti ma riconosco che può piacere.” Ero sincero, inoltre le offrivo una mezza vittoria per iniziare una manovra di disimpegno nel tentativo di scollarmela dalla giornata.
Ma non era una persona ragionevole, voleva aver ragione a ogni costo e, pur di riuscire a sopraffarmi, entrò in loop. Ci ritrovammo imprigionati per tre volte nello stesso dialogo senza futuro.
“Le piace la lirica?”
“No, non incontra i miei gusti ma riconosco che può piacere.”
Alla quarta mi arresi e risposi: “Sì, mi piace.”
Con una bugia riuscii a sfuggire all’orizzonte degli eventi, ma questo diede l’equivalente dell’adrenalina alla sua parlantina per espormi - in maniera dotta - i pregi del melodramma. Feci penitenza per la menzogna ascoltandola in silenzio, sicuro che fosse meglio di mille costrizioni e preghiere varie.


Ora però, ogni volta che sento della lirica, mi rivedo comparire davanti la melomane incallita. Si manifesta sempre allo stesso modo, compare avvolta da una nuvola di zolfo e mi pungola con un forcone, urlandomi: “ignorante.”
Conoscete il mio rapporto con la lirica, sapete che “no, non incontra i miei gusti ma riconosco che può piacere”. Immaginate la mia faccia quando mi è capitato tra le zampe Follia Maggiore di Alessandro Robecchi, un romanzo edito da Sellerio con il titolo preso da Il turco in Italia di Gioacchino Rossini e con una copertina che richiama un palco teatrale.


Immaginavo di avere qualche problema di concentrazione leggendo di soprani e affini, temevo a ogni riga l’incursione della figlia stagionata del Diabolus in Musica.
Devo dire che l’autore non si risparmia nello scrivere di opere liriche e lo fa con una grazia tale da mettermi in apprensione per l’esito di un concorso. Inoltre, cosa non da poco, riesce anche a rendermi felice nel pascolare nei verdi campi di Youtube per ascoltare ogni singola citazione.
Follia Maggiore è il quinto romanzo della serie di Carlo Monterossi. A differenza di alcune serie americane, dove del protagonista poco o niente si sa - salvo il riassuntino comprensivo di soluzione del caso precedente - l’autore gestisce al meglio i personaggi: li mostra, non li racconta.


Anche senza aver letto i precedenti, l'ex autore televisivo Carlo Monterossi è subito familiare, non sono necessari chissà quali giochi mentali da Jedi o disperate ricerche su Google per sapere chi è, come ragiona e come è finito a essere la spalla di Oscar Falcone.
Non si rimane spaesati nemmeno quando compaiono Ghezzi e Carella, due vecchie conoscenze che di mestiere fanno i poliziotti.
Queste due coppie indagano sull’omicidio di Giulia Zerbi, una cinquantanovenne che in passato ebbe una relazione ad alta intensità e che fu la madre di Sonia, una promessa della lirica italiana.



Ho apprezzato la trama solida, strutturata su piani paralleli, che procede grazie a investigazioni verosimili e la storia non si esaurisce entro i confini del giallo da cui è nata. In merito allo stile della scrittura posso solo spendere buone parole. Asciutto, ironico e non convenzionale. Senza sprecare intere pagine riesce ad accendere la tensione e non solo, senza mai perdersi in chiacchere superflue. Menzione speciale per il narratore brillante, lontano dall’aplomb rigido dei molti ficcanaso più o meno onniscienti. Una scelta azzardata, basta poco per passare dalla simpatia alla molestia. L’autore riesce benissimo nell’intento di fraternizzare con il lettore, tanto da non farne l’ennesimo spettatore passivo.


Valore aggiunto di Follia Maggiore è la possibilità di riflettere sui rimpianti con il sottofondo di alcuni brani di Bob Dylan, sollevare la pessima maschera delle eroine della televisione del dolore, riflettere con qualche sorriso sulla pochezza della società in cui ci ritroviamo incastrati e, tra le altre cose, sviluppare l’assillo aritmetico nel calcolare quante settimane mancano alla fine.

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