Qualche tempo fa mi ronzava in
testa la scadenza di un modello F24 e, per non mettere su un alveare nel cranio,
decisi di andare a pagarlo. All’ufficio postale il caso mi ritenne degno di un
posto a sedere, così mi sistemai sull’unica poltroncina verde disponibile. Si
trattava di una di quelle allineate, le stesse che qualche designer con
fantasia economica adatta ai prezzi stock aveva progettato per favorire lo
stupro dello spazio vitale di chi se ne serviva.
Fu così che mi ritrovai incastrata
nel fianco, come il pezzo a S di Tetris, una geriatrica intrattenitrice con tanto
di capelli viola tenue e bocca raggrinzita dagli anni. Nell’attesa innescò una
conversazione. Fu una chiacchierata molesta, settata sul principio “devi sapere
tutto di me”. Terminati i convenevoli con una radiografia verbale, iniziò a pubblicizzare
la sua presenza alla prima di una non ricordo più quale opera lirica in un
teatro ancora più sperduto dell’ufficio postale in cui eravamo.
“Le piace la lirica?” Chiese, soprattutto
per misurare chi tra i due partecipava a più eventi mondani.
“No, non incontra i miei gusti ma
riconosco che può piacere.” Ero sincero, inoltre le offrivo una mezza vittoria
per iniziare una manovra di disimpegno nel tentativo di scollarmela dalla
giornata.
Ma non era una persona
ragionevole, voleva aver ragione a ogni costo e, pur di riuscire a sopraffarmi,
entrò in loop. Ci ritrovammo imprigionati per tre volte nello stesso dialogo
senza futuro.
“Le piace la lirica?”
“No, non incontra i miei gusti ma
riconosco che può piacere.”
Alla quarta mi arresi e risposi:
“Sì, mi piace.”
Con una bugia riuscii a sfuggire
all’orizzonte degli eventi, ma questo diede l’equivalente dell’adrenalina alla
sua parlantina per espormi - in maniera dotta - i pregi del melodramma. Feci
penitenza per la menzogna ascoltandola in silenzio, sicuro che fosse meglio di
mille costrizioni e preghiere varie.
Ora però, ogni volta che sento della
lirica, mi rivedo comparire davanti la melomane incallita. Si
manifesta sempre allo stesso modo, compare avvolta da una nuvola di
zolfo e mi pungola con un forcone, urlandomi: “ignorante.”
Conoscete il mio rapporto con la
lirica, sapete che “no, non incontra i miei gusti ma riconosco che può piacere”.
Immaginate la mia faccia quando mi è capitato tra le zampe Follia Maggiore di
Alessandro Robecchi, un romanzo edito da Sellerio con il titolo preso da Il
turco in Italia di Gioacchino Rossini e con una copertina che richiama un palco
teatrale.
Immaginavo di avere qualche
problema di concentrazione leggendo di soprani e affini, temevo a ogni riga l’incursione
della figlia stagionata del Diabolus in Musica.
Devo dire che l’autore non si
risparmia nello scrivere di opere liriche e lo fa con una grazia tale da
mettermi in apprensione per l’esito di un concorso. Inoltre, cosa non da poco,
riesce anche a rendermi felice nel pascolare nei verdi campi di Youtube per
ascoltare ogni singola citazione.
Follia Maggiore è il quinto
romanzo della serie di Carlo Monterossi. A differenza di alcune serie americane,
dove del protagonista poco o niente si sa - salvo il riassuntino comprensivo di
soluzione del caso precedente - l’autore gestisce al meglio i personaggi: li
mostra, non li racconta.
Anche senza aver letto i precedenti, l'ex autore televisivo Carlo Monterossi è subito familiare, non sono necessari chissà quali giochi mentali da Jedi o disperate ricerche su Google per sapere chi è, come ragiona e come è finito a essere la spalla di Oscar Falcone.
Non si rimane spaesati nemmeno quando
compaiono Ghezzi e Carella, due vecchie conoscenze che di mestiere fanno i
poliziotti.
Queste due coppie indagano
sull’omicidio di Giulia Zerbi, una cinquantanovenne che in passato ebbe una
relazione ad alta intensità e che fu la madre di Sonia, una promessa della
lirica italiana.
Ho apprezzato la trama solida, strutturata
su piani paralleli, che procede grazie a investigazioni verosimili e la storia
non si esaurisce entro i confini del giallo da cui è nata. In merito allo stile
della scrittura posso solo spendere buone parole. Asciutto, ironico e non
convenzionale. Senza sprecare intere pagine riesce ad accendere la tensione e non solo, senza mai perdersi in chiacchere superflue. Menzione
speciale per il narratore brillante, lontano dall’aplomb rigido dei molti
ficcanaso più o meno onniscienti. Una scelta azzardata, basta poco per passare
dalla simpatia alla molestia. L’autore riesce benissimo nell’intento di
fraternizzare con il lettore, tanto da non farne l’ennesimo spettatore passivo.
Valore aggiunto di Follia
Maggiore è la possibilità di riflettere sui rimpianti con il sottofondo di
alcuni brani di Bob Dylan, sollevare la pessima maschera delle eroine della
televisione del dolore, riflettere con qualche sorriso sulla pochezza della
società in cui ci ritroviamo incastrati e, tra le altre cose, sviluppare l’assillo
aritmetico nel calcolare quante settimane mancano alla fine.
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